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Due volti del decadentismo italiano: D’Annunzio e Pirandello

Il decadentismo è una corrente culturale che nasce in Francia sul finire del 1800 ed è imperniata sostanzialmente sulla critica al Positivismo, che traeva la propria linfa vitale dalla scienza e dai suoi progressi, sull’esaltazione di quei valori soggettivi che confluiscono nella percezione del piacere sensoriale, della bellezza e dell’irrazionale.


Il termine, nella fase iniziale, aveva una connotazione negativa in quanto associato ai Poeti Maledetti i quali coltivavano energicamente il rifiuto della morale borghese e di tutto ciò che essa comportava; vede la luce in Francia e i suoi esponenti maggiori sono Verlaine, Rimbaud e Baudelaire. In Italia, tale corrente dà vita alla Scapigliatura – chiamata così per via dell’acconciatura insolita, per l’epoca, degli artisti che vi aderirono –che finì per creare una culla nella quale sarebbero poi nati il verismo e il decadentismo.


L’artista decadentista avvertiva uno stridente senso di estraneità con l’esistenza impostagli dalla società, che rifiutava energicamente con la vita e con l’arte; la morale borghese, i canoni artistici romantici e classici avevano un sapore ormai superato e sentiva il bisogno di oltraggiarli, in qualche modo, per poter dar via ad un’innovazione che reputava essenziale. Il senso della sconfitta, della morte, della decadenza e l’attrazione verso quella vasta gamma di sentimenti considerati inusuali esconvenienti, erano visti in realtà come motori trainanti.


Il decadentismo italiano viene generalmente suddiviso in due periodi: il primo al quale appartengono Pascoli, prevalentemente nel ramo del simbolismo, e D’Annunzio e il secondo, con Pirandello e Svevo; le diversità tra la prima e la seconda fase sono costituite da sfumature importanti e tangibili: in D’Annunzio, ad esempio, vediamo nel personaggio di Andrea Sperelli de Il Piacere, ancora quel bisogno di vivere la decadenza come se se ne fosse attratti – e in effetti è così –, tra amori diversi e l’impossibilità di raggiungere una pace che non sia sofferenza, l’indecisione e l’inaccettabile consapevolezza di vivere un momento storico di transizione dall’aristocrazia della nobiltà al popolo con la propria democrazia; diverse sono, nelle opere dannunziane, le descrizioni di palazzi dei nobili decaduti ormai in rovina.


Con D’Annunzio, in Italia, si dà il via a quello che mi piace definire il figlio sensibile del decadentismo: l’estetismo; la corrente che nasce in Inghilterra e vede come maggiore esponente Oscar Wilde, venera la bellezza come fosse l’esperienza fondante della vita, forse la più importante, reputa l’arte il valore dei valori, quell’elemento strabiliante che racchiude in sé la capacità di essere sia il mezzo che il fine, e proclama la figura del dandy, dell’esteta dedito sì ai piaceri, ma ai più alti e raffinati. La sensorialità, nell’estetismo, evolve in sensualità; assistiamo, dunque, all’esaltazione dei cinque sensi, unico mezzo di percezione del vero piacere e che non deve essere in alcun modo frenato. L’estetismo dannunziano raggiunge il suo apice nella teoria del panismo, ossia nella fusione totale, fisica e mentale, degli elementi naturali (e dunque sensoriali) con l’elemento umano; la lirica La pioggia nel pineto, contenuta nella raccolta Alcyone, ne è l’esempio lampante: “ […] e immersi/ noi siam nello spirto/ silvestre,/ d’arborea vita viventi;/ e il tuo volto ebro/ è molle di pioggia/ come una foglia,/ e le tue chiome/ auliscono come/ le chiare ginestre […]”. Nel componimento in questione possiamo assistere ad una unione totale della donna amata, chiamata qui Ermione come la figura mitica della figlia di Elena di Troia, e l’ambiente naturale circostante.



Un contesto simile richiede necessariamente un superuomo, è qui che nasce la figura del Vate, il quale possiede i mezzi intellettuali per essere un profeta, una guida giusta e capace per un popolo, del quale sa interpretare le volontà e le emozioni, che vive passioni sincere e umane, in un’ottica estetica che fa confluire tutto ciò che è buono nell’arte.


Del Vate annoveriamo una folta produzione in disparati generi: dalla poesia al romanzo e al teatro.

Pirandello, invece, romanziere e drammaturgo, malgrado condivida con D’Annunzio il bisogno, tutto decadentista, della rottura necessaria e inevitabile con la società e i suoi principi borghesi e con i canoni artistici romantici e classici, si colloca in una fase diversa da definirsi successiva: se gli esponenti dell’estetismo, infatti, coltivavano in qualche modo la decadenza, il decadentismo pirandelliano si scontra ormai con le certezze frantumate del proprio tempo ed elargisce la propria arte nell’arcipelago delle stesse; è così che la borghesia, col proprio modello di vita patriarcale, diventa il bersaglio principale delle sue critiche che finiscono per essere estese a tutto il genere umano, a prescindere da qualsiasi condizione.


L’impossibilità di essere liberi da se stessi, la molteplicità dell’Io, ormai disperso in cocci appuntiti, dalla quale non ci si può sottrarre, il contrasto stridente tra arte e vita: “La vita o si vive o si scrive. Io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola.”, e le maschere, cucite addosso ad ognuno, indossate senza possibilità di liberarsene, se non per mezzo della follia, fanno precipitare l’uomo in un mondo nel quale non ci sono più miti, non c’è più nulla su cui costruire: la verità è inaccessibile.

Emblematico l’esempio de “Il fu Mattia Pascal”, classico intramontabile, datato 1904, nel quale il protagonista decide di cogliere l’occasione di abbandonare la vecchia vita, offertagli dal fatto che viene creduto morto, cambiando dunque anche nome e connotati, per accorgersi alla fine di non poter sfuggire a se stesso e alla miseria che si porta dentro.


Per comprendere Pirandello, come uomo prima che come artista, segnalo Lettere a Marta Abba, musa ispiratrice del drammaturgo, con il quale ebbe una corrispondenza epistolare, e probabilmente amore impossibile, irraggiungibile di Pirandello che si intristisce quando lei si firma col proprio nome e cognome, come fosse un’estranea, quasi a voler fare di quell’amore fragile un porto sicuro. Probabilmente Ibsen, se potesse parlare, definirebbe Marta Abba “il naufragio concluso” di Pirandello, il quale non riuscì ad unirsi alla sua amata, per ragioni non specificate.


L’esperienza decadentista italiana, molto più complessa e variegata di quanto io l’abbia descritta in questo breve saggio nel quale mi sono concentrata su due tra gli artisti che amo di più, merita di essere approfondita per mezzo delle letture, unico modo per toccare con mano le emozioni degli uomini che hanno fatto grande la nostra letteratura.

 

Saggio breve a cura di Sabrina Mangano


 
 
 

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