top of page
Cerca

Recensione della raccolta poetica "Come bere un bicchier d’acqua-istruzioni" di Marilina Ciociola

Sic et simpliciter: quale modo migliore per introdurre qualcosa di così armoniosamente complesso? È con l’introduzione della famosa locuzione latina che si presenta Come bere un bicchier d’acqua-istruzioni, una frizzante silloge poetica ad opera della scrittrice manfredoniana Marilina Ciociola; ogni parola, persino ogni virgola e ogni spazio, trasudano potenza, evanescenza, senso critico e la vena dissacratoria più disarmante.

Pubblicazione indipendente, quasi a rendere più forte il concetto di arte per l’arte, senza intermediari di nessun genere, Come bere un bicchier d’acqua-istruzioni contiene già nel titolo quel fil rouge che tiene insieme l’intera opera, dal primo componimento all’ultima parte in prosa, sebbene non sia da definirsi un prosimetro, per una non effettiva commistione. Il viaggio, in compagnia dell’autrice, inaugura un volo, nel quale “contrarie alle incombenze si stagliava le circostanze”: è la vita che scorre che imbratta tutto di sangue, il sangue delle emozioni, del ricordo, del risentimento, della rabbia, della fiducia, della domanda e del desiderio di libertà.



La natura caleidoscopica dell’opera permette l’individuazioni di topoi, che ho visto ruotare sotto i miei occhio come in una composizione ad anelli: il controllo, catena dell’umano essere, di una paura ancestrale, quasi spirituale, e voglia incomunicabile dell’inesplorato, dell’oltre, di qualcosa che non si conosce; la non-vittoria, che produce un incontro-scontro incandescente con la non-sconfitta, che si riversa, impetuosa o pacifica, come un fiume al centro della foresta vergine, in una celebrazione disperata della vita nonostante i suoi “nonostante”. E ancora, l’immobilità, che costeggia silenziosa il sentiero del movimento, che lo scruta, lo osserva da non poi così lontano: il gesso, statico e fermo, che diventa disinibita volontà, in un processo tutto umano che incarna il senso stesso dell’esistenza, il pendolo che si muove, che oscilla ai due estremi.

Le ali faranno il loro dovere, l’annebbiamento della condizione primordiale: il piccolo di uccello che si trova a dover volare, per dovere, perché scritto nel proprio dna, senza averlo fatto prima e ci riesce, dopo una collezione numerosa di cadute… l’uomo è poi così diverso? La solitudine, anch’essa facente parte del codice genetico di chiunque, il bisogno e allo stesso tempo la repulsione che la accompagnano, è presentata con la leggerezza di una nevicata a fine primavera: delicata ma aggressiva come lo è l’inaspettato, dal bisogno ridondante, martellante, che si fa sentire sottovoce ma importante, come una nenia che penetra lentamente ma in profondità inesplorate, quella della vita che esiste. Una nota particolare, quasi speziata, è quella dell’amore, il sentimento – che ne racchiude al suo interno una vasta gamma di altri –di cui tanto si è discusso e si discuterà, intorno al quale ruota, si dice, qualsiasi cosa esista; in Proficua tenzone, l’emozione cardine dell’esistenza, assume una nota di una dolcezza e di una passionalità elevatissime: Fantastiche, ravvolte confidenze/vorrei strapparti/con le stesse dita/con cui ti ho firmato/a vita quel momento,/il giorno/in cui ho deciso di capirti, fino in fondo. Non è vero che, in fondo, “Forse non si desidera tanto essere amati quanto capiti?” (G. Orwell).

È una pittura a spatola, la silloge di Marilina Ciociola: il confronto con l’anima, che da sempre è la maggior vertigine di chi ha il coraggio di guardarsi dentro, diventa una pennellata di blu cobalto; quella di Giallo scuro diventa una ruggine di colore che, nell’opera di completare i ricordi, fa il gesto eroico di cercare, smaniosamente, in maniera certosina e speranzosa, nelle cesellature di una cornice ormai corrosa dal tempo e dalle memorie, le cose che si perdono; in The beginning prende corpo un caleidoscopio di sensazioni, nel quale le emozioni fluiscono velocemente dal caldo al freddo di una realtà descritta in maniera mordace, aggressiva, che espone la necessità di affidarsi all’urgenza, di aggrapparsi alla liana per continuare il giro, per riuscire a superare il gozzo della pantomima, il nodo di sangue che non si riesce a sciogliere. A proposito di aggressività, di quella buona, di quella che contiene rabbia e leggerezza al tempo stesso, in Rock’n Roll, baby! sento, come mi piace definirla, la veemenza ottimista, la costruzione d qualcosa, che parte dalla percezione di quello che ci circonda, spassionata, libera da fronzoli e giustificazioni, e che passa necessariamente prima dalla demolizione di qualcos’altro.

Questa forza trova le sue fondamenta più vere, più solide, nell’attenzione alle piccole cose che non sono necessariamente le cose più piccole, non di stazza perlomeno: "il terriccio umido e brulicante di vermi/che ho sempre amorevolmente tenuto d’occhio”, la voglia di anestetizzare la paura con l’aiuto di un lavoro immaginifico del vivente che, con lo sforzo di un demiurgo, cerca di creare prospettive nuove, che siano all’altezza, dove non le vede.



Leggendo il lavoro sensibile di Marilina Ciociola in Come bere un bicchier d’acqua-istruzioni, non è difficile avere la sensazione di sfiorare un’essenza meravigliosamente piena che si presenta con l’umiltà di un’ombra, adirata come chi ama col sangue tra i denti, ma, in un ossimoro disarmante, sempre in punta di piedi. Leggere questa silloge ha significato, per me, assistere ad una delle più grandi dimostrazioni di autenticità da molti anni ormai: ho visto, ho ascoltato, ho persino toccato, in una sinestesia di sensazioni, qualcosa- e qualcuno – che fluttua, che offre una danza nuova, diversa, per quanto intrisa d’umana natura, resa ancor più spettacolare dalla musica silenziosa che la circonda; niente di ampolloso, altisonante, roboante, gonfio: qualcosa di semplice, sì, ma come il desiderio,/come l’istinto,/come il tormento.

 

A cura di Sabrina Mangano

 
 
 

Comments


bottom of page