Recensione del romanzo “Il miglio verde”
- Progetti Futuri
- 11 mag 2020
- Tempo di lettura: 5 min
“Soffro di insonnia ciclica […] cosicché cerco di avere sempre a disposizione una storia per le notti in cui non riesco a prendere sonno.”: è così che si apre la prefazione de “Il miglio verde”, romanzo pubblicato dal maggiore scrittore vivente, Stephen King, nel 1996.
Nelle sei parti nelle quali è suddiviso, l’ormai anziano Paul Edgecombe, che passa i suoi giorni in una casa di riposo delle Georgia, racconta in un diario di memorie, che fa leggere volta per volta all’amica Elaine, gli eventi risalenti al 1932, anno nel quale era guardia carceraria nel penitenziario di Cold Mountain e responsabile del braccio della morte. L’ultimo miglio, così denominato perché conduceva alla sedia elettrica, chiamata da detenuti e dai carcerieri Old Sparky , la vecchia scintillante, o Big Juicy o Scaricona, aveva il pavimento di un singolare color cedro: questa la ragione per la quale era conosciuto come il miglio verde.
Il 1932 fu l’anno di John Coffey, un uomo nero, dalla stazza imponente e accusato di aver violentato e ucciso due bambine: c’erano pochi dubbi sulla sua colpevolezza, dal momento che era stato trovato con le vittime fra le braccia; fu anche l’anno del francese Eduard Delacroix e del suo topo “da circo”. In un ottobre definito simile ad agosto per via de clima afoso e umido, tipico delle estati dell’Alabama, la moglie del direttore del penitenziario, Hal Moores, Melinda, vedeva peggiorare le proprie condizioni per quello che si scoprirà essere un tumore situato al centro del cervello e dunque inoperabile, che causava, oltre al dolore insopportabile, una strana e insolita abitudine al turpiloquio.
Le guardie in servizio nel 1932 nel braccio E, al fianco del capo Edgecombe, sono Brutus Howell, chiamato scherzosamente Brutal dai colleghi per via della corporatura importante, sebbene non avrebbe fatto del male ad una mosca, Dean Stanton ed Harry Terwilliger. A scortare John Coffey dal semiasse alla sua cella è Percy Wetmore, un giovanotto raccomandato, stupido e iracondo, descritto come “l’elemento sbagliato in un posto nel quale avere un caratteraccio era inutile e talvolta pericoloso”. John Coffey, nero analfabeta e capace di scrivere solo il proprio nome, si mostra come un omaccione mansueto e molto taciturno.
Quell’anno, il capo Edgecombe soffre di una grave infezione urinaria che gli causa dolore e difficoltà nella minzione; John Coffey, richiamandolo davanti alla sua cella, lo tira con forza a sé e ponendo le mani su di lui compie quello che si direbbe un miracolo: lo guarisce dal male che lo affliggeva. A questo punto, Paul Edgecombe, comincia a mettere seriamente in discussione l’effettiva colpevolezza dell’uomo, malgrado tutto porti a pensare il contrario; comincia, dunque, a fare delle indagini, chiedendo un colloquio ad un giornalista.
Il prigioniero Eduard Delacroix, che vedrà la morte poco dopo, nutriva ed addestrava un topo che aveva chiamato Mister Jingles: “era come se Dio avesse deciso che aveva bisogno di un angelo custode” che Percy Wetmore, in preda ad uno dei suoi attacchi d’ira, schiaccia e riduce in fin di vita. È così che tra lo stupore generale, Paul Edgecombe decide di chiedere aiuto a John Coffey che guarisce il topo e lo riporta in vita. Ormai è chiaro, l’uomo in quella cella è in grado di compiere miracoli, dunque, dopo non poche esitazioni, i colleghi decidono di portarlo a casa di Hal Moores, per guarire la moglie Melinda. Intanto le indagini di Paul, condotte nelle contee di Purdom e Trapingus, proseguono per arrivare alla soluzione, chiara ma non dimostrabile: il vero colpevole del crimine del quale è accusato Coffey è Wild Bill, diciannovenne psicopatico detenuto anch’eglio nel braccio E. Intanto Coffey, che non si era liberato del male “succhiato” alla signora Moorse, lo passa al malvagio Percy Wetmore il quale, prima di espellerlo, bersaglia di proiettili Wharton e poi viene ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Briar Ridge.
La figura principale del romanzo, quella di John Coffey, è sicuramente emblematica: un uomo nero, in un momento storico nel quale la società americana era ancora pervasa da un profondo razzismo, benché la schiavitù fosse stata di fatto abolita tra il 1863 e il 1865, ad eccezione del Kentucky.

Le caratteristiche dell’uomo, a parere della critica, sono riconducibili a quelle del Cristo che, secondo la tradizione, viene immolato innocente per mondare le colpe del mondo ed è capace di fare miracoli di vario genere. La sedia elettrica era il mezzo utilizzato per le esecuzioni capitali nell’Alabama degli anni Trenta e i detenuti “scherzavano su di essa come sempre si fa delle cose di cui si ha paura, ma alle quali non ci si può sottrarre”; credo che questo dettaglio sia fondamentale, nell’ottica di King, per scandagliare la psicologia umana e tutti i meccanismi di difesa che emergono di fronte al pericolo imminente e che accomunano tutti, buoni e cattivi. Sono tanti gli intellettuali schieratisi contro la pena capitale, nel corso della storia; è in questo senso che “Il miglio verde” si configura come un’amara critica alla pena di morte, non solo per la possibilità di uccidere innocenti, come nel caso del personaggio di John Coffey, ma in quanto pratica barbara, incivile, umiliante a prescindere da chi la riceva e perché, come se non fosse il modo più giusto, per saldare il debito che si contrae con la società compiendo un crimine.
Non secondario è il ruolo dei carcerieri, involontari complici di un omicidio vero e proprio, che vengono chiamati ad assolvere il compito di giustizieri come dei boia che non hanno bisogno di coprire il proprio volto ma che forse lo farebbero volentieri.
Percy Wetmore e William Wharton sono la personificazione del ladrone cattivo al fianco di Cristo sulla croce e vengono puniti in un’ottica quasi veterotestamentaria, nella quale Dio si configura fondamentalmente come un’entità punitiva piuttosto che misericordiosa e benevola. L’atto liberatorio di John Coffey, al seguito delle miracolose guarigioni che compie, consiste nell’espellere il male tolto sottoforma di piccolissimi insetti che vanno a disintegrarsi dopo pochi istanti, come a simboleggiare il fatto che sì, il male c’è, ma probabilmente non è compatibile con la bellezza del creato. È questo il motivo per cui l’uomo sceglie di morire, di non sfuggire al proprio destino: non chiede che la croce venga allontanata da sé, chiede di poter ricongiungersi al Padre, stanco della solitudine, della sofferenza e del male che gli uomini fanno gli uni agli altri.
“Non ne posso più del dolore che sento e vedo, capo. Non ne posso più di vivere in strada, solo un pettirosso sotto la pioggia. Mai un amico da andarci insieme, un amico che mi dice da dove veniamo, dove stiamo andando e perché. Non ne posso più della gente cattiva che si fa del male. Per me è come cocci di vetro piantati nella testa. Non ne posso più di tutte le volte che ho voluto rimediare e non ho potuto. Non ne posso più di stare al buio. Soprattutto è il dolore. Ce n’è troppo. Se potessi smettere di sentirlo, lo farei. Ma non posso.”
A tutto c’è un prezzo: Paul Edgecombe scrive questa storia ormai molto anziano, molto più di quanto sia normale; per essere stato toccato da Coffey, per aver visto la verità dietro l’omicidio del quale era accusato, si ritrova a vivere un’insolita lunga vita, con tutto ciò che essa comporta: la vecchiaia, l’abbandono, il dolore della perdita di chiunque egli abbia amato: “Nel 1932 John Coffey mi inoculò la vita, mi folgorò di vita”. L’ultimo incontro con Coffey, ormai negli anni Cinquanta, avviene appena dopo il grave incidente che coinvolge Paul e sua moglie Janice; lo vede nella nebbia, vede un fantasma, e gli fa una richiesta d’aiuto che non sarà accolta perché la donna resterà uccisa.
Il romanzo si conclude con i ricordi di Paul: la memoria dei colleghi, del topolino di Delacroix, la visione di Melinda seduta sul letto che diceva a John, dopo la guarigione, di averlo incontrato nel buio delle tenebre e di averlo trovato, di Elaine ormai scomparsa per la vecchiaia e dell’amore per Janice… e si perde nella consapevolezza della propria condizione: “Penso a Janice, a come l’ho perduta, a come mi si è sciolta di rosso fra le dita. […] Tutti noi dobbiamo morire, non ci sono eccezioni, lo so, ma certe volte, oddio, il miglio è così lungo.”
Autrice: Sabrina Mangano
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