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“Perché non mi ascolti?" Esegesi e libero commento del brano Goodbye Horses

Goodbye Horses è un brano inciso e distribuito nel 1988, scritto da William Garvey e interpretato da Q Lazzarus; ad oggi, sebbene esistano delle registrazioni originali non ancora diffuse dai parenti del defunto autore, sono note tre versioni: una da 3.12, una da 4.20 e quella estesa da 6.28.

La canzone, dal testo particolarmente simbolico e criptico, ha raggiunto la notorietà internazionale grazie al film Il silenzio degli innocenti, pellicola del 1991 diretta da Jonathan Demme, con Anthony Hopkins e Jodie Foster, basata sull’omonimo romanzo di Thomas Harris; secondo diverse fonti, la scelta del brano è stata dovuta soprattutto alla voce, per così dire androgina, dell’interprete: un serial killer si trucca e si veste da donna mentre la sua ultima vittima chiede aiuto in un seminterrato.


Q Lazzarus, fonte discogs.com


Nel 1988, Goodbye Horses appare nel film Una vedova allegra… ma non troppo, sempre di Jonathan Demme, con Michelle Pfeiffer e Matthew Modine. Nel 1996, gli Psyche, una band canadese synthpop, pubblicarono una versione della canzone come lato B del proprio singolo You run away e poi la inclusero nell’album Strange Romance, dello stesso anno.

Nel 2009, il brano sarà coverizzato dai Gil Mantera’s Party Dream, da Brad Sucks, che ne pubblica una personale interpretazione sul proprio sito web e, nel 2010 dagli Snowden che lo eseguiranno dal vivo in un concerto a New York. Malgrado le numerose versioni, differenti tra loro per una vasta gamma di fattori, dopo l’originale, solo la versione degli Psyche raggiunse una buona popolarità.

Nel film Clerks II, diretto da Kevin Smith e uscito nelle sale nel 2006, Goodbye Horses appare in una scena che riprende, in chiave parodistica, la scena cult de Il silenzio degli innocenti, nel quale il serial killer Buffalo Bill indossa degli abiti da donna. Nel 2012 fu utilizzata nell’horror Maniac, diretto da Franck Khalfoun; nel videogioco Grand Theft Auto: IV; nella campagna per la primavera 2016 di Gucci e nella serie televisiva statunitense post-apocalittica The last man on earth, del 2015.


Le notizie sulla fantastica interprete del brano sono molto poche: Q Lazzarus, classe 1965, il cui vero nome è probabilmente Diana o Diane Luckey, è una cantante statunitense, il cui periodo di attività va dal 1986 al 1996, attualmente impiegata come conducente di autobus e precedentemente tassista a New York; vanta due brevi apparizioni nei film Qualcosa di travolgente e Philadelphia.


Sono tante le teorie che orbitano intorno a questo brano, a mio avviso meraviglioso; certamente l’universo concepito dall’autore è qualcosa di mistico, che rimanda ad una dimensione ultraterrena. I cavalli, ai quali viene detto addio, e che nell’idea più diffusa rappresentano l’idea più pura della libertà e del legame con l’esistenza umana sulla terra, potrebbero far pensare, ad un primo ascolto, alla morte, al salto dall’ultimo precipizio, all’uomo che saluta ciò che conosce e va incontro all’ignoto. Sarei disposta a trovarla una metafora assai rassicurante, se analizzassi il brano in questa ottica; tuttavia, gli animali liberi e selvaggi incarnano i cinque sensi trattati nella Bhagavadgītā, ossia una sezione di circa settecento versi, considerata in verità come un testo sacro nell’Induismo, del poema epico Mahābhārata, nella quale il guerriero Arjuna si trova davanti al lugubre compito di dover uccidere persino i membri della propria famiglia in una battaglia che non può evitare; malgrado ciò, il guerriero, ormai preda dello sconforto, decide di non combattere. È così che Krisna gli impartisce degli insegnamenti dall’alto contenuto religioso: Arjuna non deve lasciarsi divorare dai dubbi, deve combattere comunque perché quello è il suo dovere.


L’insegnamento si può sintetizzare in questa massima: «È meglio adempiere il proprio dharma anche se senza merito (e in maniera imperfetta), che fare bene il dharma di un altro. Chi compie il dovere prescritto dalla propria natura innata non commette peccato.» (Bhagavadgītā, XVIII: 47)

Per comprendere appieno le parole straordinarie di William Garvey, per renderle meno oscure, bisognerebbe interrogarsi sul concetto di trascendenza, e farlo nella maniera più pura possibile: la trascendenza è, per definizione, quella forma di esistenza non riconducibile alle determinazioni dell’esperienza. Questa nozione ha un significato così semplice da risultare complesso, come spesso accade nella smania, tutta umana, di definire tutto: esiste oggi qualcosa, considerato credibile e quindi totalmente accettabile, che non sia stato effettivamente determinato, e quindi provato, dall’esperienza? Se si parlasse di scienza, probabilmente il discorso non farebbe una piega; ma esiste tanto altro ed è proprio di questo altro che ci parla Goodbye Horses.

La volontà, in questa manciata di parole, è quella di sforzarsi di vedere, e di far vedere, il mondo oltre la visione terrena, oltre ciò che è scientifico e provato, oltre ciò che è finito. Ciò che conta, l’essenza, si libra al di là di ciò che è tangibile, delle cose che passano nella notte, delle speranze e dei sogni caduti rovinosamente al suolo, della sensazione di sapere già cosa accadrà, proprio in nome di quella esperienza alla quale ci si affida e che puntualmente sbaglia, vista la molteplicità delle situazioni della vita. Considero Goodbye Horses una vera e propria opera d’arte: le pennellate di fiducia, di un bel turchese, dell’incedere dei cavalli verso l’essenza sopra tutte le cose, si fondono con il grigio paludoso di chi non vuole ascoltare, di chi non ha alcuna intenzione di comprendere che l’oltre è davvero un posto che si può raggiungere.

You say: “All things pass into the night” and I say: “Oh no, sir, I must say you’re wrong”, won’t you listen to me?

Goodbye, horses, I’m flying over you.

 

A cura di Sabrina Mangano

 
 
 

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