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I gigli d’oro: le donne dai piedi di loto

Ogni popolo custodisce le proprie tradizioni, gelosamente, come una parte fondamentale della propria identità: tra le altre, la Cina ci racconta delle donne dai piedi di loto.

Pratica famigerata e nota ormai in tutto il mondo, quella dei piedi fasciati, come viene definita dal 1949, anno di nascita della Repubblica Popolare Cinese, affonda le proprie radici in un passato ancestrale, lontano anni luce dalla modernità odierna; compare con la dinastia Song Ch’ao, che imperò dal 960 al 1279 e scompare, non senza difficoltà, soltanto con gli anni Cinquanta del 1900. La necessità era quella di rendere i piedi della donna minuscoli, in grado di calzare scarpe che non superassero gli otto centimetri: le motivazioni, diverse; innanzitutto una donna capace di sopportare l’atroce dolore di una fasciatura così stretta, per un minimo di tre anni, la rendeva coraggiosa, docile, legata al marito per qualsiasi movimento e una buona massaia, non potendo occuparsi di altro.



Una donna che avesse i piedi molto piccoli aveva maggiori possibilità di trovare un marito facoltoso, magari in grado di elevare socialmente se stessa e la propria famiglia d’origine, accrescendone il prestigio per tramite della rete del legame familiare.

Era fondamentale che la fasciatura venisse applicata il prima possibile, preferibilmente tra i due e gli otto anni, per via della maggiore malleabilità delle ossa giovani; tuttavia, le bambine delle classi meno abbienti erano in qualche modo penalizzate: dovendo, infatti, lavorare sin dall’infanzia, non potevano permettersi la ridotta, se non annullata, mobilità dovuta al dolore e alla deformazione dei piedi. La forma richiesta era quella a mezzaluna ed era possibile ottenerla ripiegando verso la pianta del piede tutte le dita, tranne l’alluce, e stringendolo con una stretta fasciatura, dopo aver tagliato le unghie molto corte e aver cosparso l’arto di allume, che aveva una funzione coagulante e anti-emorragica; malgrado questi accorgimenti, il rischio di infezioni, setticemia e cancrena non era scongiurato.

Sin da subito e per i primi tempi dopo la prima fasciatura diventava impossibile camminare per via del dolore, i piedi producevano una gran quantità di sangue e pus: il piede, infatti, continuava a crescere, seppur deformato. Alla fine del lungo e doloroso processo, le bambine erano in grado di indossare minuscole scarpine, finemente decorate, e con la punta. La tradizione filosofico-religiosa cinese del Confucianesimo incoraggiò la pratica, in quanto simbolo della sottomissione della donna nei confronti dell’uomo, in particolare del proprio marito; sotto la dinastia Qing, invece, si assistette ad una progressiva volontà di abolizione, anche per i crescenti rapporti con l’Occidente.

L’abolizione vera e propria arrivò nel 1902, tramite decreto imperiale, ma la popolazione si mostrò riluttante, tant’è che la pratica resistette nel tessuto sociale ancora per cinquant’anni. Alla base di questa usanza, giudicata ormai a ragione barbara, esiste un motivo culturale, fatto di canoni estetici e morali: non solo la donna col piede piccolo era giudicata coraggiosa e docile, ma, da un punto di vista prettamente maschile, era considerata più desiderabile; l’andamento oscillante dato dalla deformità del piede, simile a quella del loto fluttuante sulle acque, e la scarpina, simile alla classica decòlletè con il tacco molto nota e usata oggi, portavano la donna a tenere sempre in tensione i muscoli della gamba e del gluteo e davano l’idea, in un’ideale tutto erotico, di restringere anche i muscoli delle pareti vaginali.

I canoni sociali, di qualsiasi tipo, così mutevoli eppure così importanti, così sentiti e così seguiti per cercare di raggiungere una vita che combaci alla perfezione con gli standard, hanno causato, e continuano a causare, non pochi problemi, soprattutto con le generazioni di giovanissimi, molti dei quali non riescono a scalare le vette sociali imposte, non concependo l’idea che la diversità sia un’immensa ricchezza e che i canoni non abbiano più nessuna ragione d’esistere, in nome dell’unicità di ognuno.

L’attuale società, tanto variegata quanto complessa, ci consente oggi di fare un’analisi più dettagliata ma anche più spietata dei fenomeni che la interessano: niente di quello che viene ostentato è reale, la bellezza è un insieme immenso di qualità, tutte diverse, così come il talento, la riuscita nel lavoro, nella vita privata e professionale.

 

A cura di Sabrina Mangano

 
 
 

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